Federico Fiorentino Yacht Design, tra tecnica e libertà: l’intervista

Nel 2024 ha disegnato il Naumatec Tenderlux 350 elettrico, un tender che si inserisce nella filosofia green della serie Seadeck di Azimut. Ci sono differenze progettuali tra una carena pensata per la propulsione elettrica e una per motori endotermici?
Certamente. Prima di tutto il rapporto peso/potenza di un sistema elettrico è molto alto se paragonato a quello di un sistema endotermico. In parole semplici: tanto peso, poca potenza, poca autonomia. Il problema non sono i motori, che sono leggeri e compatti, ma il fatto di dovere dare la giusta corrente a questi motori, perché non si scappa: a tot kW di potenza devono corrispondere tot kW di stoccaggio, a meno di non volere fare una barca con 10 minuti di autonomia.
La carena va quindi studiata per il massimo rendimento, il che può volere dire, ad esempio, diminuire gli angoli di carena e aumentare la larghezza bagnata, non l’ideale. I sistemi di propulsione sono ancora poco maturi, spesso è disponibile un solo tipo di elica, a volte pochissime misure.
Ma ci sono anche vantaggi: i pesi sono fissi, sono più distribuibili, è possibile impostare l’assetto spostando le batterie che sono l’elemento più pesante di un sistema elettrico, ed è possibile farlo anche dopo il varo se ci si accorge che il baricentro non è ottimale.
Il più grande ostacolo rimane quello dell’autonomia. Ci si può accontentare di andare piano, purché “sano e lontano” come dice il detto, ma con un’autonomia limitata anche il detto non sta più in piedi perché si va vicino. E questa è la difficoltà più grande al momento e la principale sfida per il designer.
Tra i suoi progetti figurano imbarcazioni capaci di raggiungere i 70-80 nodi. Come si riesce a conciliare l’efficienza idrodinamica con le esigenze estetiche in carene ad alte prestazioni?
È facilissimo. La cosa più bella della progettazione è che quando le forme sono giuste sono anche belle. Pensiamo al discorso dell’aerodinamica che è più semplice, perché siamo tutti abituati a valutare un’automobile. L’efficienza aerodinamica di una Porsche 911 è direttamente proporzionale alla sua bellezza, siamo tutti d’accordo. Altri mezzi sono molto affascinanti, come certi fuoristrada molto squadrati, perché comunicano un messaggio preciso, ci riportano al mondo militare, ci trasmettono un’idea di forza, efficienza ed essenzialità, ma non si può dire che siano belli. Vero, si dice che la bellezza sia soggettiva, ma io credo che sia il gusto ad essere soggettivo, non il bello. La stratificata bellezza di una scultura del Canova mette sicuramente più d’accordo la critica e il pubblico rispetto al fascino indiscutibile delle “lavatrici” brutaliste di Genova. È oggettivamente così, si tratta di un insieme di aspetti: cultura, sensibilità, esperienza, esposizione alle influenze, capacità di osservare e valutare diversi piani di lettura.
Il bello è nel nostro DNA, è nelle informazioni di base, perché ci indica in natura quali sono le informazioni genetiche che abbiamo il compito di tramandare per una migliore evoluzione della specie, sta poi a noi coltivare la ricerca di questo aspetto. “La comodità è nemica del bello”, lo scriveva già nel 1920 un compositore di nome Arnold Schönberg: la comodità ferma la ricerca, chi è comodo si ferma, chi è scomodo si muove. Il movimento è vita, è crescita, per questo oggi va tanto di moda parlare di “uscita dalla comfort zone”. Quello che è veramente difficile nel 2025 è coniugare l’idrodinamica con questa ricerca spasmodica della comodità.
Siamo circondati da automobili orribili, tutte uguali e sempre più simili ai furgoni, scarpe inguardabili ma comodissime. Lo stesso vale un po’ per le barche. All’idrodinamica non ci pensa nessuno finché non si è portati a fare un paragone tra una barca che naviga male e una che naviga bene. Oggi vengono definiti sportivi oggetti che con lo sport non hanno nulla a che vedere e che anzi sono la celebrazione della sedentarietà e della comodità: il SUV sportivo è un ossimoro, si vende l’illusione di essere ciò che non si è e questo per il cliente è impagabile. È un tacito accordo che vede complici costruttore e acquirente. Siamo arrivati a vedere i finti scarichi, la marmitta poi esce completamente da un’altra parte.
Il mio più grande problema, come persona e quindi come designer, è che la comodità non mi è mai interessata, mi annoia, ma ovviamente ho dovuto imparare a mediare e, quando si riesce a creare qualcosa che, oltre che bello, è anche funzionale, si raggiunge un risultato importante. Facendo un parallelo con la musica, posso pensare ai corali di Bach: è una musica che serviva a una funzione, rispettava certe regole formali per essere facilmente eseguibile e adatta a determinati contesti, ma portava anche con sé un piano di lettura molto più alto. I grandi creatori sono quelli che arrivano al più vasto pubblico, perché sono in grado di interloquire su diversi livelli con la stessa creazione.
Lei è noto anche per la sua passione per la tecnologia. Che ruolo ha – o potrebbe avere in futuro – l’intelligenza artificiale nel lavoro di uno yacht designer?
L’AI ha già un ruolo fondamentale, per me e per tutti. È una rivoluzione che sta avvenendo talmente in fretta che ancora molti ne parlano al futuro, senza accorgersi che il momento è “adesso”. Ho iniziato anni fa a sperimentare con quello che ritengo essere l’unico software per il design, oggi maturo abbastanza da essere implementato nel processo di sviluppo di un disegno, almeno per il mio modo di lavorare. Ho iniziato quando era ancora un’idea embrionale sviluppata in una stanzetta di casa da un giovanissimo ragazzo americano, presentata dal suo creatore su un forum in modo impacciato e informale.
Oggi è parte fondamentale del mio processo creativo. Mi sostituirà? Senz’altro. Quando, non lo so, ma ci arriveremo. Per quello che riguarda il mio lavoro, sostituisce assistenti bravi e veloci, e lo fa a una velocità tale da rendere tutto estremamente divertente. La sensazione che ho è quella che provavo da bambino davanti a un enorme cesto di Lego: si sa dove si parte, ma non dove si arriva. Io realizzo uno schizzo su carta, lo scannerizzo, lo passo all’intelligenza artificiale, spiego cosa cerco, mi vengono restituite 20 idee, alcuni elementi come li volevo io, altri no, esattamente come farebbe un assistente. Sono spunti.
Magari ti propone una barca con due prue, senza senso, ma intravedi delle forme che catturano la tua attenzione e trovi una strada, che è la tua strada, non la sua: lei genera cose a caso, tu hai una visione. A questo punto decido di tenere quello che mi piace, valuto ipotesi che non avevo valutato, sperimento prompt che vadano al di là di quello che sto facendo, giocando anche con la casualità: cosa crea se le chiedo di elaborare una scultura postmoderna sulla base del mio schizzo della barca? Poi continuo a modificare il disegno a mano su Photoshop, lo ripasso nell’AI, lo rielaboro e così via, fino a che non sento di avere ottenuto quello che cercavo.
Alla fine il risultato è il mio: riconosco il mio stile, la mia mano. La parte di disegno da eseguire a mano è comunque ancora tanta ed è fondamentale. Se hai le idee, poi alla fine sei tu che guidi l’AI verso quello che avevi in testa e non viceversa. Questo vale per tutta la tecnologia: chi non sa modellare, alla fine cede alle forme che riesce a tirare fuori; chi domina la macchina, guida il CAD a restituire le forme che aveva in mente. Una delle ultime barche l’ho disegnata al telefono col cliente, mentre mi parlava, io schizzavo (male) su un pezzetto di carta grande come il palmo di una mano, poi finita la telefonata ho passato lo schizzo all’AI, ci ho lavorato un pomeriggio, la sera ho inviato il bozzetto già renderizzato con il mare. Cliente entusiasta, io entusiasta: era esattamente la barca che avevo in mente io.
Arriveremo al giorno in cui in cantiere ci sarà un responsabile o due per lo stile e tutti si disegneranno le barche in-house. Sarà una tecnologia matura in massimo 5 anni, forse meno. Il bello è che libera il creatore dai limiti imposti dalle capacità tecniche, e rende accessibile il lavoro a più persone, il che si traduce in più idee, più evoluzione e più progresso. È già successo con i render e i CAD. Se ci pensiamo, il software di render è una forma di AI, il prompt è molto più complesso, devo specificare quali sono i materiali e come voglio l’illuminazione, ma alla fine il risultato è che, da una serie di indicazioni date a un software e un manichino di partenza (il 3D), viene generata una bellissima rappresentazione grafica, più o meno realistica, che una volta solo pochissimi potevano realizzare a mano. Il rendering manuale esisteva già nel Rinascimento e, se vogliamo, e anche molto prima.
Questo apre le porte a chi non padroneggia certi mezzi, ma magari possiede una visione particolarmente brillante. Mi capita di interagire con clienti che, se avessero la capacità tecnica di disegnare una barca, probabilmente sarebbero bravissimi designer. Gli aspetti negativi sono ovvi, spaventano, gli studi con 10 persone stanno diventando obsoleti, ma siamo al mondo per andare avanti, non indietro: è la nostra natura. A tutti i giovani che incontro dico sempre di investire tempo e sforzi nella tecnologia, si gioca tutto lì.

A cosa sta lavorando attualmente? Può anticiparci qualcosa sui prossimi progetti?
Al momento le cose che mi appassionano di più sono due barche di cui non posso dire molto. Si tratta di un 12 metri e di un 15. La prima è un’imbarcazione professionale, una barca da pesca. Siamo alla fase preliminare e spero che il progetto prosegua: è davvero uno dei più entusiasmanti che ho realizzato fino ad oggi. Il settore professionale mi piace molto. Il 15 metri è un mezzo molto veloce di cui ho curato soltanto le linee d’acqua, lo stile è curato da un altro designer e, da quello che ho visto nei preliminari, uscirà una barca davvero notevole. Oltre a questo, stiamo lavorando con Lomac a due nuovi modelli e purtroppo anche in questo caso non posso dire di più.
C’è un progetto “dei sogni” che vorrebbe ancora realizzare?
Ce ne sono due. Uno è il 70 metri di cui parlavo: una barca bella, elegante, senza tempo, con interni meravigliosi, sviluppati dallo studio M2, architettura navale di Lateral. Un progetto davvero prestigioso e di alto contenuto tecnico. L’altro è una barca di 12 metri radicale, che ho chiamato, appunto, “Radical”. L’ho disegnata per me, è la mia barca. L’ho fatta vedere a professionisti del settore e amici per capire quali fossero le reazioni e i commenti, ma mi sono reso conto che le persone non abituate a creare e immaginare fanno fatica a contestualizzare idee che si discostano da quello che sono abituate a vedere nel quotidiano.
Per contro vedo progetti e costruzioni, soprattutto dai Paesi del nord, che piano piano vanno nella direzione che ho in mente. Noi designer siamo un po’ tutti collegati: le idee sono nell’aria, e capita non di rado che più di un designer arrivi alla stessa conclusione in modo del tutto casuale. Nel Nord Europa sono più elastici, è sicuramente una barca poco commerciale, ma con un pensiero ben preciso alla base, e va a coprire una nicchia di mercato oggi abbastanza scoperta. Forse un giorno la realizzerò per conto mio.
FEDERICO FIORENTINO YACHT DESIGN
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