Federico Fiorentino Yacht Design, tra tecnica e libertà: l’intervista
Nato in barca, cresciuto tra motori e carene, Federico Fiorentino ha trasformato una passione di famiglia in una professione alimentata da curiosità tecnica e visione creativa.
Il suo approccio allo yacht design nasce dall’esperienza diretta: la conoscenza del mare e delle sue dinamiche è il punto di partenza per ogni progetto, affiancata da una profonda attenzione per la meccanica, le prestazioni e il linguaggio delle forme. Tra restyling e novità, propulsioni endotermiche ed elettriche, oggi coniuga stile e funzionalità, affidandosi anche alle potenzialità dell’intelligenza artificiale nel processo creativo. Perché, come racconta lui stesso, “quando le forme sono giuste, sono anche belle”.

Come si è avvicinato al mondo dello yacht design?
Come spesso accade, si tratta di una passione ereditata in famiglia: ho avuto la fortuna di essere “nato” in barca, ma soprattutto il grande dono di avere potuto vivere il mare guardando la costa dal largo. Chi è amante del mare sa perfettamente di cosa parlo, sa che basta anche un guscio di noce per allontanarsi dalla costa e tutto cambia, si entra in un’altra dimensione. Cambiano le unità di misura, le prospettive, i suoni, le priorità, ciò che conta e ciò che è superfluo. Questo è quello che io amo del mare, un grande liquido amniotico che riporta alle basi dell’esistenza, regalando un grande senso di libertà, fisica e mentale.
Oltre a questo, sono sempre stato appassionato di costruzioni, di meccanica e di motori, il mio lavoro è sempre in ambito motonautico, sia esso professionale o diportistico. Conosco quel mondo e ritengo che per disegnare barche sia essenziale conoscere per esperienza diretta quello che si disegna. Mi piace la vela, ma la mia vita non si è mai particolarmente intrecciata con quel contesto. La naturale conseguenza è che, come molti miei colleghi, da bambino disegnavo le barche e già in tenera età sognavo di fare quel mestiere.
A 10 anni con mio papà andai a vedere il primo Pershing 45 disegnato dal grande De Simoni. Si trattava di un giovane cantiere fondato da alcuni avventurosi soci, tra cui uno dei pilastri della nautica italiana, Tilli Antonelli. Ebbi la conferma che quello doveva essere il mio mestiere. A distanza di quarant’anni, grazie alla mia collaborazione con SACS/Pirelli, oggi mi trovo a collaborare con un altro Antonelli, il figlio di Tilli, Nicola. Per me, questo ha rappresentato la chiusura di un cerchio. Amo la nautica, mi sento a casa tra le barche.
Lei ha ottenuto anche un diploma in composizione musicale negli Stati Uniti. Ha mai pensato di tornare in America, magari per lavorare nel settore nautico?
Sì, ci ho pensato spesso. L’Italia è un Paese difficile a volte. Ho vissuto 4 anni a Boston, andavo a visitare le località di mare vicine come il Maine o Cape Cod. La nautica americana è molto varia, spesso molto tecnica e molto specializzata.
La clientela europea è più orientata alla comodità, mentre gli americani, popolo “comodo” per antonomasia, quando concepiscono barche costruiscono anche mezzi molto tecnici… e scomodi. Nascono così capolavori come i fisherman di Rybovich o Merritt, le aragostiere del Maine, le barche da velocità di cantieri come Cigarette, Donzi o Outerlimits.
Da studente scrissi a Donald Blount, uno dei progettisti più importanti della storia nautica mondiale, per chiedere se fosse possibile ricevere il PDF di un suo paper che mi interessava leggere. Mi rispose la segretaria chiedendomi l’indirizzo fisico di casa. Una settimana dopo mi arrivò un CD masterizzato contenente tutte le pubblicazioni di Blount. Provate a fare una cosa del genere in Italia.
Nel nostro mercato, oggi, molte scelte di design seguono in modo un po’ sbilanciato la logica della comodità e della produzione industriale, ma questo spesso penalizza la ricerca formale, trovare un equilibrio rappresenta la vera sfida. Per natura trovo più stimolante lo studio delle forme e della dinamica, ma sono cosciente del fatto che sia necessario rispondere a una domanda coniugando forme e contenuti. Negli USA c’è spazio per interpretazioni molto diverse del design, probabilmente è una questione legata alle dimensioni del mercato.
Inoltre, negli States la nautica è un fenomeno di massa, qui no. L’Italia, come diceva Enzo Ferrari, “è un Paese in cui si perdona tutto, ma non il successo” e di conseguenza la barca genera invidie e rancore. “Anche i ricchi piangono” recitava un’illuminante campagna politica di qualche tempo fa, facendo il verso a una soap opera in voga negli anni ’90. Tuttavia, tra i vari e innumerevoli difetti che attribuisco al nostro Paese, c’è quello di essere un posto meraviglioso. Lo considero un difetto perché sono tante le occasioni in cui la voglia di andare via si insinua… ma poi il cuore ha la meglio.

C’è stato un momento o un progetto che ha rappresentato una svolta nella sua carriera?
Ci sono stati diversi momenti e progetti che hanno segnato il mio percorso. Sicuramente i progetti delle prime imbarcazioni da corsa: cercavo un biglietto da visita, avevo bisogno di qualcosa che parlasse al mio posto e ho pensato che una barca di 8 metri da 80 nodi potesse rappresentare un buon argomento. Ed è stato così che abbiamo vinto gare e campionati. Le mie barche si sono conquistate qualche posticino nei record della UIM. Ricordo che il mio caro amico Tullio Abbate mi disse una frase bellissima: “Sei negli elenchi dei vincitori UIM. Questa è una cosa che non ti porterà mai via nessuno”.
La collaborazione con Lomac ha rappresentato sicuramente un altro momento importante, perché con loro ho avuto modo di lavorare sugli aspetti tecnici e stilistici della produzione. Siamo cresciuti insieme. Ho diversi clienti con cui lavoro da tanti anni, ma Lomac è il cantiere con cui ho il rapporto lavorativo che dura da più tempo, quasi 15 anni. Poi ci sono le collaborazioni con brand prestigiosi come Rossinavi. Il progetto che avrebbe decretato un ulteriore importante salto per la mia carriera è la costruzione di un 70 metri, che il cliente ha deciso di cancellare un mese prima della posa chiglia, a nesting cominciato.
Ha collaborato con diversi cantieri e brand: come cambia il suo approccio da una produzione in serie a un progetto completamente custom?
La differenza sostanziale sta nel fatto di avere nel custom un interlocutore con le idee più o meno chiare, confuse nella peggiore delle ipotesi, ma comunque con qualcosa da condividere. È una persona a cui puoi mostrare un disegno e da cui puoi ricevere un feedback.
Quando si realizza un progetto di serie, ci si scontra con i pareri di tutti i potenziali clienti, con le idee della rete vendita, dei dirigenti del cantiere, delle maestranze e della stampa di settore… e via così, è difficile.
Lavorare sul custom è sicuramente più semplice quando il cliente è ragionevole. Capita di incontrare persone irragionevoli nelle richieste e quello diventa un grande problema. In quei casi, a volte preferisco rinunciare al lavoro, perché significa poi mettersi nei guai.

Recentemente ha curato il restyling del Lomac GranTurismo 12.0. Come si affronta un progetto di restyling? Come si decide cosa conservare e cosa aggiornare?
Il restyling è un processo abbastanza naturale, forse il lavoro più semplice per un designer. Si lavora su una barca che si è già “confrontata” con il mercato per anni, la si conosce in tutti i suoi dettagli: ha maturato critiche, apprezzamenti, prove, valutazioni, vendite, paragoni con la concorrenza e l’impietosa analisi di coscienza che per ogni designer è inevitabile al momento del varo: cosa è effettivamente come l’avremmo voluto, cosa non lo è e, peggio di tutto, cosa è come lo avremmo voluto, ma non va bene perché era proprio l’idea ad essere sbagliata.
Al momento del restyling, tutte queste esperienze confluiscono in una nuova organizzazione dell’idea originale, sia a livello stilistico, adattando le forme a quello che è il trend più attuale, sia a livello di scelte progettuali. È come potere riconsiderare il progetto dopo una lunga prova sul mercato: una seconda chance.
Continua a leggere l’intervista alla pagina successiva.