Il problema delle emissioni ambientali di solventi organici volatili nell’Industria Nautica e dei Compositi
In questo editoriale, verranno esposti i risultati da me presentati all’ultimo convegno organizzato dall’AS.PRO.NA.DI, tenuto a Barberino del Mugello lo scorso 14 maggio, intitolato: ‘Idee e suggerimenti per una Nautica eco-compatibile‘.
L’intervento da me proposto si incentrava sul complesso ed intricato discorso delle normative ambientali in relazione all’immissione in atmosfera di solventi organici nocivi, problema che l’industria nautica deve e dovrà affrontare in maniera sempre più efficace e definitiva
La costruzione di imbarcazioni, nell’ultimo quarantennio, ha visto il crescente impiego di materiali plastici rinforzati, a scapito di metalli e legno, sempre più relegati ad una produzione di nicchia.
L’utilizzo dei compositi polimerici è divenuto – in effetti – sempre più massiccio, grazie ad una serie di vantaggi tecnico-economici fra cui l’elevata resistenza specifica, ossia, la capacità di presentare buone caratteristiche meccaniche mantenendo un peso del manufatto ridotto.
Ciononostante, l’adozione della vetroresina ( e similari ) nel diporto nautico ( e non solo ), presenta non pochi problemi, specialmente in riferimento all’impatto ambientale che le lavorazioni in oggetto determinano.
Difatti, l’industria del composito adotta materie prime
( resine, gelcoat, collanti ) che liberano importanti percentuali di solventi organici volatili ( SOV ) che – se non intercettati e trattati – incidono sull’inquinamento atmosferico, oltre che, sulla salute dei lavoratori.
A tal uopo, a livello internazionale si stanno articolando una serie di disposizioni legislative ( sempre più stringenti ) volte a regolamentare e controllare le attività industriali coinvolte nel processo di immissione in ambiente di composti aeriformi nocivi.
In particolare, la riduzione delle emissioni inquinanti previa l’utilizzo di impianti speciali di abbattimento rappresenta solo una delle possibili soluzioni adottate, fra l’altro, ‘a valle’ del processo.
Infatti, è possibile intervenire efficacemente sulla limitazione dell’inquinamento atmosferico attraverso l’impiego di materie prime e tecnologie di stampaggio maggiormente eco-sostenibili anche ‘a monte’ del processo stesso di stampaggio.
Ma partiamo dall’inizio.
Come ben noto, le imbarcazioni in vetroresina vengono realizzate a partire da due fasi principali, ossia : la fibra di vetro ( con varianti in vetro-aramidica ) che supportano i carichi meccanici, e le resine termoindurenti ( il cui compito è quello di tenere insieme le fibre e distribuire le sollecitazioni ).
Le resine termoindurenti, a loro volta, possono essere di diversi tipi. Fondamentalmente nella nautica vengono adottate principalmente due tipi di famiglie: la classe delle resine poliesteri ( a cui appartengono le orto-ftaliche, le iso-ftaliche e le vinilesteri ) e le resine epossidiche. Genericamente una resina sintetica può essere definita come un prodotto organico, ad alto peso molecolare, ottenuto per una reazione di policondensazione fra diversi monomeri.La struttura chimica delle resine poliesteri fa sì che il processo di polimerizzazione si basi su una reazione a catena che viene innescata dal catalizzatore-accelleratore e che, una volta partita, continua autonomamente fino al completo indurimento del laminato.
Uno dei componenti principali della resina è il Vinilbenzene ( altrimenti denominato stirolo o stirene) che è un idrocarburo aromatico, la cui formula semplificata è C6H5 – CH = CH2, appartenente alla classe degli areni monociclici. Lo stirene, solitamente, è presente all’interno delle resine in una misura che varia in un range del 35-45 % in peso. A sua volta, di questa percentuale, circa il 10-15 % evapora nell’ambiente di lavoro.
A tal uopo, recenti studi dello IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato lo stirene nel Gruppo 2B (possibile cancerogeno per l’uomo), Pertanto il rilascio di vapori di stirene è oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità competenti in materia di tutela ambientale e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Tuttavia, c’è da dire che ancorché – allo stato – questo monomero non risulti accertato come cancerogeno, esso sia comunque catalogato come nocivo con effetti sulla salute degli operatori.
Le conseguenze alla sua esposizione diretta, infatti, vanno dall’ irritazione alle vie aeree sino all’insorgenza di effetti neurologici quali: debolezza, sonnolenza e perdita di coscienza.
Il contatto epidermico, inoltre, potrebbe generare eritemi ed infiammazioni.
Ma quanto stirene, realmente, un cantiere nautico ‘immette’ nell’ambiente di lavoro? E soprattutto: qual è l’ammontare che viene tollerato dalle regolamentazioni attuali? Chiaramente le risposte sono funzione di varie condizioni al contorno, fra cui la quantità di materia prima traformata. Tuttavia, è possibile stilare delle medie sulla base dei dati sperimentali raccolti.
Partiamo da alcuni presupposti. Innanzitutto, la quantità di stirene presente nell’ambiente di lavoro viene valutata con una particolare unità di misura, definita ppm ( parti per milione). Per una migliore comprensione, si assuma che n°1 ppm di stirene equivale ad avere nell’ambiente circa 42 milligrammi di monomero in ogni metro cubo.
A livello comunitario, esistono due parametri di controllo essenzialmente.
Il primo viene definito VLS, ed è il Valore Limite di Soglia nella media delle 8 ore lavorative.
Il secondo parametro, invece, definito LEBT è il Limite di Esposizione a Breve Termine che solitamente viene calcolato su una base di 15 minuti di lavoro. Nella tabella seguente vengono riportati i due limiti, così come definiti a livello comunitario, per ogni stato appartenente.