Tecnologie costruttive per imbarcazioni da diporto: l’utilizzo di resine epossidiche e poliesteri
In questo articolo si vuole introdurre un argomento oggetto di discussioni e dibattiti fra i costruttori di imbarcazioni, ossia l’utilizzo delle resine epossidiche rispetto alle poliesteri e viceversa.
Durante gli ultimi anni, in qualità di consulente industriale nel settore in oggetto, ho affrontato a più riprese l’argomento sul campo e ho lavorato con molteplici prodotti, anche di marchi differenti al fine di conoscere al meglio le caratteristiche, i vantaggi e gli svantaggi di ogni singolo materiale costruttivo impiegato nella produzione di natanti, imbarcazioni e navette.
Le imbarcazioni (così come svariati oggetti “ad alta tecnologia”: aerei, treni, autoveicoli, attrezzature sportive, etc.) sono costituite al loro interno da una buona parte di “compositi”, ossia di materiali “non convenzionali” che – a differenza dei più tradizionali metalli – sono ottenuti essenzialmente dall’insieme di due/tre fasi: le fibre, le resine e gli eventuali “anime”.
Ebbene, andando più a fondo possiamo capire che questa categoria di materiali, in realtà, può offrire prestazioni molto diverse in funzione delle sottocategorie (fibre, resine e anime) proprio perché anche queste ultime possono essere di tipologie differenti.
Per fare un esempio molto comune, tutti (o quasi) sanno almeno che esistono due tipi di fibre ( in realtà ne esistono molte di più): quelle di vetro e quelle di carbonio.
Per i materiali d’anima (ossia quelli che vengono annegati all’interno della laminazione) vale più o meno lo stesso principio (si può conglobare del legno, del poliuretano espanso, delle lastre di PVC, etc. ). E per le resine, appunto, medesimo discorso: si parte dalle meno ‘blasonate’ ortoftaliche, passando per le isoftaliche, fino ad arrivare alle più performanti vinilesteri ed epossidiche.
Resine poliesteri ed epossidiche
Per approfondire il discorso relativo alle matrici, cerchiamo di comprendere meglio quali sono le principali differenze fra le due categorie di resine che abbiamo introdotto. Scrivo di due categorie (ma anche in questo caso potremmo estendere il discorso a svariate altre ) in quanto sia le orto, che le Iso e che le vinilesteri appartengono alla famiglia delle resine POLI-ESTERI, mentre le EPOSSIDICHE sono una famiglia a sé stante.
Ma prima di affrontare le eventuali differenze partiamo col capire quali sono i punti comuni. Innanzitutto le resine (di qualsiasi tipo) servono a tenere unite le fibre insieme e a trasferire i carichi.
Queste ultime, prima di essere lavorate si presentano allo stato fluido. Per poter indurire occorre un componente (catalizzatore o induritore) che fa avvenire la reazione di polimerizzazione (l’indurimento, appunto ).
Ora, senza scendere nella chimica delle due resine, iniziamo col dire che nelle resine poliesteri, l’indurimento avviene ad opera di un elemento (il catalizzatore) che viene aggiunto alla resina in una misura dell’1,5-2,0 %.
Ciò significa che se per realizzare un’imbarcazione da 40 piedi occorrono circa 1000 kg di resina, serviranno approssimativamente 20 kg di catalizzatore. Nel caso delle epossidiche, invece, i componenti che compartecipano alla reazione di reticolazione sono due e (giusto per fornire un ordine di grandezza) il componente B (l’induritore) rappresenta il 30 % circa del componente A.
La presenza dei solventi e il fenomeno del Ritiro Volumetrico
Ma cerchiamo di analizzare, adesso, una questione molto spinosa ossia: la presenza dei solventi. I SOV (solventi organici volatili) sono delle sostanze presenti nella mescola della resina (ma anche delle vernici o di altri polimeri) che servono essenzialmente a fluidificare la materia rendendola estremamente lavorabile onde permettere una perfetta impregnazione delle fibre ed un ottimale trasferimento dei carichi. Il problema legato ai solventi, tuttavia, è duplice.
Innanzitutto, questi SOV essendo per definizione ‘volatili’ – durante il processo di lavorazione – passano nell’ambiente di lavoro rendendo il microclima meno salubre: il caratteristico ‘odore’ che si avverte entrando in un cantiere è appunto il pungente aroma dello stirene, il principale solvente delle resine poliesteri.
Il secondo problema è, invece, di natura diversa. Siccome i solventi evaporano, l’indurimento del materiale comporta un fenomeno che viene definito tecnicamente ‘ritiro volumetrico’. In altre parole, siccome buona parte del solvente passa allo stato vapore, il manufatto finale risulterà ‘ritirato’. Ebbene, questo ritiro può causare diversi inconvenienti di natura tecnica in quanto, a posteriori, se essi sono molto marcati bisogna intervenire con opere di carrozzeria importanti sotto il profilo economico.
Orbene, lo stirene è un componente presente nelle resine della famiglia poliestere nella misura del 35-40 % circa (anche se non tutto evapora).
Di contro, nelle resine epossidiche non è contenuto stirene. E infatti, le matrici in questione subiscono un ritiro molto inferiore rispetto alle loro parenti poliesteri.
A valle di ciò, i fautori delle epossidiche parlano spesso di “zero ritiri”.
In realtà, cercando di essere neutri ed obiettivi, non esistono (ad oggi) resine che dopo il processo di reticolazione non subiscano delle pur minime deformazioni.
Volendo essere molto concreti e poco teorici, si può andare a considerare che con la famiglia delle poliesteri di base (orto ftaliche e isoftaliche) i ritiri volumetrici reali possono raggiungere valori del 7/8 %, per le vinilesteri si raggiungono valori del 4/5 %, mentre per le epossidiche si raggiungono ritiri dell’ordine dell’1/2 %.
Proprietà meccaniche e fisiche delle resine a confronto
Le proprietà meccaniche delle resine rappresentano, in qualche modo, la resistenza che esse oppongono ai carichi.
La famiglia delle proprietà meccaniche è anch’essa molto estesa. Si considerano generalmente per i paragoni principali: la resistenza alla trazione, alla flessione, alla compressione e al taglio.
Un’altra classe di proprietà che di solito viene indagata per caratterizzare le resine è quella delle Resistenze alla Fatica. Quest’ultima indica la capacità di resistere ad un ciclo ripetuto di carichi sollecitanti. Per fare un esempio banale, la resistenza alla fatica di una carena è rappresentata dalla capacità di supportare carichi ciclici (ripetuti nel tempo) come per esempio l’azione delle onde del mare. In generale, come si può leggere da diverse schede tecniche, le resistenze delle resine epossidiche risultano generalmente superiori a quelle delle poliesteri.
Questo parametro, tuttavia, non deve generare confusione.
Un buon progettista sa bene che “la parte del leone” in ogni materiale composito (e quindi nel laminato che va a costituire un ponte di coperta, una carena, etc. ) è rappresentata dalle fibre e non dalle resine (che invece, ripeto, sono deputate essenzialmente a tenere unite le fibre e a trasferire correttamente i carichi ).
Questo, chiaramente, non significa che la ‘superiorità’ delle proprietà delle resine epossidiche non incida ma – semplicemente – che incide meno rispetto ad una scelta operata sulla base dei rinforzi fibrosi.
Un altro aspetto molto importante è quello della ‘resistenza all’acqua’. Le barche, naturalmente, sono degli ‘oggetti’ che trascorrono buona parte della propria esistenza tecnologica a contatto con l’acqua. Ora, questo contatto costante deve essere in qualche modo ‘arginato’ da una buona resina che funga da barriera. Infatti, se le molecole d’acqua penetrano all’interno del laminato ( attraversando il gelcoat e lo skincoat) possono minare le proprietà meccaniche fino a minacciarne la robustezza.
L’acqua, infatti, solubilizza gli appretti contenuti nelle fibre e può causare il famoso fenomeno dell’osmosi.
Questo fenomeno si presenta macroscopicamente con una serie di sacche (bolle) all’interno delle quali è presente un composto a base di acido acetico che può innescare – chiaramente – cricche che a loro volta possono propagare e causare in qualche caso delle vere e proprie delaminazioni. Per tale motivo è fondamentale, ogni volta che si ala la barca, farla ispezionare da un buon tecnico che abbia la capacità professionale per poter escludere la presenza di un incipiente fenomeno osmotico.
A tal scopo, ad ogni modo, i cantieri di buon livello adottano sempre resine vinilesteri per lo skin coat (le resine vinilesteri hanno una buona inerzia contro l’acqua rispetto alle parenti orto e iso) e in alcuni casi si effettua un trattamento antiosmosi (preventivo) con prodotti a matrice epossidica (che esibiscono un’inerzia all’acqua ancora superiore) sullo strato esterno.
Le orto e le iso, invece, hanno scarsa resistenza all’acqua e – se si decide di impiegarle – devono essere riservate agli strati interni della scocca.
Proprietà tecnologiche a confronto
In questo paragrafo esamineremo le proprietà delle resine nell’ambito della lavorazione reale in cantiere.
Quindi lasceremo ‘a casa’ tutti i presupposti teorici da laboratorio, vista l’impossibilità di replicarli in cantiere.
Dalle considerazioni del precedente paragrafo sembrerebbe esservi una sorta di classifica crescente in termini di caratteristiche chimiche, fisiche e meccaniche nel seguente ordine: Orto, Iso, Vinilesteri, Epossidiche.
In realtà, come per le proprietà meccaniche, i discorsi da fare sulle valutazioni complessive sono ben più complessi e richiederebbero ulteriori approfondimenti per comprendere come un buon progettista riesce ad ottenere il mix ottimale fra proprietà meccaniche/chimiche/fisiche e costi.
Ad ogni modo faccio una premessa. Le resine (tutti i tipi ) sono dei prodotti chimici (polimeri sintetici) che richiedono particolari condizioni operative relativamente a: Temperatura, Umidità, Ambiente di lavoro. Tutto ciò, operativamente parlando si traduce nel fatto che i compositi richiedono un’attenzione maggiore rispetto ai tradizionali materiali quali i metalli o il legno.
Per fare un esempio banale, realizzare una barca in alluminio o in legno in un capannone in cui la temperatura è inferiore ai 15° C, non comporta necessariamente grossi problemi.
Al contrario, per le resine si potrebbero avere rischi di sottoindurimento. Stessa cosa dicasi per l’umidità (che deve essere assolutamente controllata: cfr quanto detto pocanzi sull’assorbimento dell’acqua all’interno delle resine) e per la presenza di polveri (che deve essere ridotta al minimo nei reparti di produzione in quanto i granelli di varie impurezze inglobati nei laminati possono innescare micro-cricche e scollamenti fra gli strati)
Comunque sia, facendo – come al solito – una classifica ‘euristica’ legata alla stabilità rispetto alle condizioni al contorno possiamo dire con una buon grado di coerenza, che le resine ‘meno blasonate’ risultano (in scala) più stabili rispetto alla variazione delle condizioni al contorno. In altri termini, andando a considerare le reali condizioni di un reparto produttivo, le resine di natura poli-estere sono molto più ‘stabili’ rispetto a quelle più ‘pregiate’ che invece risultano – sotto questo profilo – maggiormente delicate.
Ciò, chiaramente, non significa che quando si lavorano resine poli-esteri non si debbano avere le giuste accortezze, ma semplicemente che un abbassamento di temperatura non preventivato (dovuto ad esempio alla rottura dell’impianto di riscaldamento) incide negativamente molto di più sulle resine epossidiche rispetto alle vinile steri e ancor di più rispetto alle iso/orto.
Pertanto, se è vero da un lato che le epossidiche sono (per certi versi) resine più performanti è anche vero che richiedono condizioni di lavoro rigidamente controllate, (con impianti di riscaldamento efficienti e un check dell’umidità costante) senza le quali, le performance teoriche di queste resine difficilmente vengono raggiunte.
Analisi dei Costi
In ultimo, ma non per importanza, apriamo la parentesi legata all’analisi dei costi dei materiali. Sono molti anni che lo Studio Coccia si occupa anche di ottimizzare i costi di produzione e pertanto la nostra visione di insieme ci permette di poter esprimere una corretta valutazione sul costo del manufatto. Senza scendere nel particolare partiamo dell’ipotesi – giusto per avere un’idea – che se le resine poliesteri costano “ X “, le resine Vinilesteri costano circa il doppio, mentre le epossidiche possono costare circa il doppio delle vinile steri ( e quindi il quadruplo delle poliesteri ).
Ma cosa significa questo? Ebbene, detta così… nulla. Questa valutazione brutale viene di solito effettuata da chi non conosce perfettamente il ‘sistema compositi’ e le relative analisi dei costi e quindi si limita ad esaminare il ‘prezzo’ di un’unica fase che va a costituire l’insieme del materiale composito.
Cerchiamo di capire meglio. Come più volte detto, una scocca in composito viene realizzata partendo da più materiali: fibre, resine, mastici, materiali d’anima, etc.
Pertanto, la resina non è che una parte ‘ennesima’ dell’intera scocca e di conseguenza l’equazione “ se la resina costa il doppio = la scocca costa il doppio” è assolutamente priva di senso.
Il diverso costo delle resine va, infatti, spalmato sugli “N” materiali che costruiscono il composito e non incide nella maniera brutale a cui i meno esperti potrebbero pensare. E questo era il primo aspetto.
In seconda battuta possiamo andare a riprendere il discorso dei ritiri e delle deformazioni. Se, da un lato è vero che le resine ‘migliori’ costano di più alla base, è anche vero che ritirano molto meno (ricordo che la Vinilestere ritira la metà rispetto ad una orto ftalica, l’epossidica ritira la metà rispetto ad una vinilestere). Ma questo… cosa significa in merito ai costi? La risposta è molto semplice. Rifacendoci al discorso dei cicli di carrozzeria, risulta chiaro che una scocca non omogenea né uniforme a causa di ritiri e/o eventuali marcature richiederà materiali aggiuntivi (stucchi, fondi, vernici, etc.) che si tradurrà sicuramente in un aggravio in termini di costi (oltre che di pesi , naturalmente).
Alla luce di quanto esposto, seppur in maniera succinta, l’unica conclusione che si può trarre è che… non si possono trarre conclusioni!
Per poter decidere come realizzare un’imbarcazione occorrono competenze complesse a 360° che permettano di valutare quali fibre, resine, materiali e tecnologie utilizzare.
Non si riesce, alla luce delle numerose condizioni al contorno (requisiti di resistenza, leggerezza, target costi, etc.) ad enunciare delle regole generali che possano essere utilizzate semplicemente da chiunque. Per riuscire ad ottimizzare le variegate soluzioni possibili, anche in considerazione dell’analisi dei costi industriali, occorrono conoscenze profonde e complesse che può avere solo un valido progettista che oltre a possedere un ottimo bagaglio teorico abbia maturato molti anni di esperienza sul campo.